Il film The Judge rappresenta, per il suo epilogo, il film ideale per parlare della scarcerazione per motivi di salute, tema attualissimo e dibattuto a lungo sia in politica che in diritto.
Trovate la prima parte dell’articolo, con la trama del film, sulla pagina dell’attività professionale a questo link.
L’istituto in gioco è quello dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p, che statuisce il rinvio facoltativo dell’esecuzione penale per motivi di salute; è un procedimento avviato su istanza di parte o d’ufficio, se è lo stesso carcere a procedere a segnalazione.
Per motivi di salute la norma parla di infermità fisica, che deve essere grave (infausta, imminente e ravvicinata) o con pericolo di ulteriori conseguenze dannose sullo stato di salute, tali che la stessa gravità della patologia rende necessario l’accesso del detenuto a forme di assistenza sanitaria incompatibili con la detenzione in carcere.
Altro requisito è la diversità di cure di cui ha bisogno il detenuto, cure che non possono essere fornite nei presidi ospedalieri carcerari.
Il vero è proprio parametro di bilanciamento è il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. ed ancor di più l’art. 27 Cost. che statuisce il divieto di un trattamento penale contrario al senso di umanità, tale che la permanenza in carcere possa aggravare la patologia del detenuto, arrecando una sofferenza aggiuntiva che superi la soglia dell’umane tollerabilità.
Ad ogni modo, è bene specificare che tale valutazione viene fatta caso per caso, in concreto, dal giudice di sorveglianza, sulla base della patologia del singolo detenuto e delle sue specifiche condizioni carcerarie, venendo alla luce, ad esempio, la prigione nel quale egli sconta la sua pena.
Proprio per questo si evidenzia che alcuni boss mafiosi sono stati condotti ai domiciliari (e non liberati) mentre altri no, perché magari la loro patologia era particolarmente grave o perché il carcere nel quale stavano non aveva grosse opportunità di assistenza, ad esempio per il sovraffollamento.
Insomma, più che prendersela con i diritti dei detenuti a scontare una pena umana, sarebbe stata una grossa occasione per riflettere sui problemi strutturali del nostro sistema penitenziario.
Detto ciò, la norma statuisce che qualora sussiste il pericolo concreto della commissione di nuovi delitti, allora vi è divieto di disporre il differimento della pena e, se concesso, va revocato.
Motivo per cui il differimento della pena (tecnicamente si definisce così) può essere proposto solo se non è possibile il ricovero in un ospedale civile o in altro luogo di cura o se non è possibile il trasferimento in altra struttura penitenziaria congrua alla condizione di salute.
La Corte Edu (dei diritti dell’uomo) ha analizzato il problema proprio in relazione al nostro paese, per il caso Contrada, stabilendo il differimento della pena solo se esiste uno stato di salute fortemente compromesso da patologie gravi, se esiste una certificazione sanitaria che indica espressamente l’incompatibilità con la detenzione in carcere e l’assenza di pericolosità sociale del soggetto.
Per le Corti europee ciò che conta non è l’incompatibilità con la detenzione carceraria, ma che la detenzione stessa sia tale da comportare un pericolo di vita ulteriore ed evitabile o sofferenze altrettanto superflue.
La Corte di Cassazione, inoltre, ha statuito che il magistrato deve verificare non solo che le condizioni di salute del detenuto siano compatibili con la detenzione in quel determinato penitenziario, con un giudizio quindi in concreto.
Comunque i giudici di legittimità hanno evidenziato che questo rimedio di “liberazione” è residuale e da applicare se ogni altra soluzione non può essere attuata.
Tornando al problema di cronaca dei boss, quella applicata in larga misura è tecnicamente chiamata detenzione in deroga o “umanitaria”, ossia i domiciliari in luogo del penitenziario.
Tale misura è sussidiaria rispetto al differimento della pena e viene concessa nei casi in cui il detenuto ha una pericolosità sociale residuale (se non esiste, si applica il differimento), con il controllo dello Stato, quindi, ossia delle forze dell’ordine che sottopongono chi è ai domiciliari ad un controllo praticamente quotidiano.
Tale misura può essere concessa in via definitiva o in via provvisoria, quest’ultimo il caso proprio dei boss mafiosi.
Sull’onda delle polemiche con il Pubblico Ministero Antimafia Nino Di Matteo, il Ministro della Giustizia Bonafede si è fatto promotore di un decreto, approvato in Consiglio dei Ministri, che ha cercato di porre un freno, tutto da vedere nei risultati, al ricorso della detenzione in deroga per i boss mafiosi.
Il Decreto ha posto l’obbligo di parere del DDA per gli autori di reati “mafiosi”, anche se alla fine il magistrato potrà procedere a decisione sia in assenza di pareri sia in casi di estrema urgenza.
Inoltre, tali pareri sono obbligatori, ma non vincolanti, affidando la decisione sempre al magistrato di sorveglianza.
Insomma, oltre il clamore mediatico e l’uso politico, il provvedimento è molto lontano dall’obbligare alla riconduzione in carcere dei boss, anche perché nella maggior parte dei casi i provvedimenti erano tutti “provvisori”, di certo non avendo la natura di definitiva scarcerazione di soggetti che, comunque, si specifica, sono ai domiciliari e non sono certo liberati dal controllo dello Stato.
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